Tra me e lei

Caterina, raccontaci come nasce questo progetto. Partiamo dal titolo, cosa significa?
È la prima frase dell’Amleto, una dalle più famose tragedie shakespeariane. Una sentinella che sta sulla torre di guardia del castello sente un rumore e chiede “Who’s there?”, “Chi va là?”. Questa domanda introduce l’opera e la mia ricerca: il chi, dunque il tema dell’identificazione, e il “là” il tema del luogo.

Perché hai scelto l’Amleto come punto di partenza del tuo lavoro?
Ho studiato design presso la Libera Università di Bolzano e parallelamente ho frequentato il corso teatrale “Giovani in scena” del Teatro Stabile di Bolzano, dove ho scoperto l’Amleto di Shakespeare. n questa occasione ho interpretato la figura di Ofelia, quindi ho fatto una ricerca teatrale sul suo personaggio, sui suoi gesti, sulle sue emozioni. Ho utilizzato il mio corpo per cercare di capirla.  Quando ho dovuto affrontare la mia tesi universitaria ho scelto di unire queste due mie passioni, quella del teatro e quella del design. Ne è scaturito questo progetto.

Chi è Ofelia?
Ofelia è uno dei personaggi principali della tragedia. Prima di tutto è una donna. È la donna da sposare, che non viene ascoltata, che vuole fuggire, che è considerata debole e che, alla fine dell’opera, decide di togliersi la vita. Quello di Ofelia è un personaggio molto complesso.

Come hai vissuto questa ricerca?
All’inizio mi sono chiesta “Ma chi sono io per poter parlare di un personaggio che si suicida?”. Io volevo parlare di forza, non di debolezza. Perché parlare e cosa dire su un personaggio così fragile? Partendo proprio da questi miei dubbi e dalle domande esistenziali che ho ritrovato nel personaggio di Ofelia (Chi? Dove? Perché?) è iniziato un discorso tra me e lei. La domanda principale per me era “Dov’è Ofelia?”. 

E così hai iniziato a cercarla? Come?
Inizialmente non sapevo cosa fare, ero completamente bloccata. Non avevo la minima idea di dove fosse Ofelia, non sapevo da dove partire. In quel periodo stavo leggendo due libri: uno parlava di Ofelia come simbolo di mancanza, l’altro del camminare come pratica artistica. Allora ho iniziato a camminare alla ricerca dell’assenza. Camminavo e fotografavo il vuoto, cercando di usare la macchina fotografica come se fossero gli occhi di Ofelia. Attraverso il suo sguardo ho cercato di conoscerla, di capire cosa vede, cosa prova, dove si trova.
  
Dove l’hai cercata?
Il mio punto di partenza è stata l’università e, poco a poco, mi sono allontanata. Ho esplorato le mie zone di sicurezza, quelle che frequentavo quotidianamente, scoprendo anche cose nuove. Poi ho cominciato ad allontanarmi. Sono andata in quartieri che non conoscevo, come per esempio il Casanova. Erano luoghi di cui avevo sentito parlare, ma non avevo mai visto. Questo lavoro mi ha spinta a conoscere cose e posti che non avevo mai visitato .
Per la prima volta nella mia vita ho fotografato con naturalezza. Catturavo dei dettagli senza pensare, mi fidavo del mio istinto. È stata una ricerca di indizi, di tracce. Questo ha fatto emergere in me una cosa che prima non avevo.


Questo lavoro ti ha permesso di acquisire una maggiore presa di coscienza di te stessa?
Sì, di sicuro. Questo lavoro è una forma di ricerca su me stessa e mi ha permesso di conoscere molto di più della mia identità. Le domande che facevo a lei in realtà le ponevo anche a me stessa. Farle delle domande era quasi un pretesto per farle a me. Sono molto orgogliosa di questo progetto perché sono cresciuta, ho scoperto cose nuove, ho cambiato idea rispetto a determinate cose e ho modificato alcuni punti di vista. Ho aumentato moltissimo la consapevolezza di me stessa. Questo lavoro fa parte di me, lo considero come un diario.

Sei riuscita a trovare Ofelia?
Ho trovato quello che mi serviva, in un certo senso, ma non credo di averla l’ho trovata. Magari non posso neanche trovarla. Ofelia sta in tantissimi posti, ma allo stesso tempo è persa. Mi avvicinavo, la percepivo, mi allontanavo. Non credo che la ricerca si fermi qua.


Dove hai avuto la sensazione di averla più vicina?
Ho iniziato fotografando oggetti fermi e stabili, come porte bloccate, muri crepati o entità che mantenevano una posizione ferma. L’architettura per me è come un copione in quanto determina e impone il nostro modo di vivere, ci blocca e ci limita, spesso inconsapevolmente. Poi ho cominciato a fotografare il fiume che scorre, i movimenti dell’acqua, il suo flusso perpetuo. Un contrasto fortissimo con le strutture architettoniche imposte da qualcun altro. Il fiume era l’unica via di fuga. Forse il fiume è Ofelia.

Che cos’è per te la Memoria?
Dimentico moltissime cose. Non vorrei dimenticarle. Però penso che in qualche modo mi hanno toccata e dentro di me hanno smosso qualcosa. Anche se la mia mente non ricorda determinate cose che ho vissuto, il mio corpo in qualche modo le ricorda. Per me la Memoria è un’impronta, uno spostamento, un movimento conservato nel nostro corpo, che come un grande hard disk conserva informazioni e ricordi.

Che cos’è per te l’Anima?
Per me l’Anima è una sostanza fluida. Assomiglia all’acqua e come essa trova il suo spazio, si infiltra, viene bloccata, viene contenuta. È una sostanza sottile che riempie i vuoti… forse è l’unica cosa che riempie i vuoti. Cercare il vuoto è per me un tentativo di toccare questa sostanza.