Oltre

Christian, insieme ad alcuni ragazzi senza fissa dimora, ci ha raccontato la città di Bolzano da un’altra prospettiva, quella della strada. Secondo Christian la fotografia è il riflesso della nostra anima e dei nostri occhi. In tal senso le fotografie di questo progetto rappresentano una documentazione autentica e sincera di una Bolzano nascosta, di cui si sente parlare ma che spesso non si vede.

Christian, raccontaci un po’ di te.

Ho 25 anni e sono nato e cresciuto a Bolzano. Ho studiato presso la facoltà di Scienze dell’Educazione della Libera Università di Bolzano e ora lavoro come educatore sociale presso l’Associazione La Strada - Der Weg. Nel tempo libero mi dedico alla mia passione, la fotografia. Anche se nell’ultimo periodo non ho avuto molto tempo per praticarla, l’ho approfondita dal punto di vista concettuale, sopratutto durante la stesura della mia tesi di laurea. 

Parlaci del tuo progetto di tesi. Quando ti sei avvicinato alla tematica dei senza fissa dimora?
Tutto è iniziato da un tirocinio che ho svolto presso l’Associazione Volontarius Onlus, più precisamente nel progetto “Oltre la Strada” che svolge attività lavorative di Streetworking. Durante questo periodo ho cominciato a riflettere sul ruolo della fotografia al giorno d’oggi, sul significato che può avere fotografare.  

Da dove arriva l’idea di mettere in pratica la metodologia del Photovoice?
Attraverso alcune ricerche ho scoperto Paulo Freire, un pedagogista brasiliano che ha sviluppato un progetto in una piccola comunità del Sud America vittima di grandi sfruttamenti. Freire diede ai membri di questa comunità delle macchine fotografiche e chiese loro di rappresentare con un’immagine lo sfruttamento. Alcuni di loro portarono le foto dei propri padroni, altri gli strumenti con cui venivano bastonati. Un bambino tuttavia portò la foto di un chiodo sul muro. Tutti, con un po’ di stupore, si chiesero come un chiodo potesse rappresentare lo sfruttamento. Indagando, il pedagogista scoprì che i bambini di questa comunità lavoravano come lustra scarpe e ogni giorno dovevano andare dalla periferia al centro città, percorrendo moltissimi chilometri a piedi. Quando i sacchi di scarpe erano troppo pesanti da trasportare fino a casa, i bambini affittavano un chiodo in una bottega e ci appendevano il loro sacco pronto per il giorno seguente.  

È stato quindi Paulo Freire la tua ispirazione?
Sì, questa scoperta mi ha aperto gli occhi: ho realizzato che oggi vediamo tantissime immagini e questo ci impedisce di fermarci a pensare per quale motivo una fotografia è stata scattata. Quindi mi sono chiesto: perché non usare il metodo di Freire con i ragazzi senza fissa dimora che ho conosciuto durante il mio tirocinio? In accordo con l’equipe della Volontarius, abbiamo deciso di realizzare quest’idea.
 

Come si è svolto il progetto?

Ho chiesto a tre ragazzi senza fissa dimora se volevano intraprendere questo percorso con me e, dopo avergli spiegato a fondo di cosa si trattava, ho consegnato loro delle macchine fotografiche analogiche usa e getta e gli ho chiesto di fotografare ciò che trovavano di bello e ciò che trovavano brutto della loro vita a Bolzano.

Perché hai deciso di utilizzare delle macchine analogiche?
Si trattava di macchine di piccole dimensioni, ideali da tenere nei loro zaini o in tasca. In più, da un punto di vista concettuale, non vedere la fotografia nell’immediato, significa molto per me. In questo modo devi pensare a lungo, devi ragionare bene, prima di scattare una foto. Fin da subito c’è un momento di riflessione, il quale ti aiuta a proseguire le considerazioni anche successivamente.  

Cos’hai provato quando hai sviluppato i rullini? Quali sono stati i tuoi primi pensieri quando nel momento in cui hai visto le foto per la prima volta?

Appena ho visto alcune immagini , mi sono chiesto “Perché?”. Abbiamo parlato a lungo delle fotografie che hanno scattato e grazie ai loro racconti ho iniziato a valorizzare quello che quotidianamente vivo.
Per esempio un ragazzo ha fotografato la biblioteca in via Museo. Per me la biblioteca rappresenta lo studio, il silenzio, i libri. Per lui invece vuol dire riuscire a caricare il cellulare, avere un posto caldo, asciutto. Oppure semplicemente accedere a una connessione wifi, l’unico modo per riuscire a comunicare con i suoi parenti.
 

Qual è la foto che ti colpisce di più?
Mi sono affezionato a tutte, ma quella che mi piace di più è quella che si intitola “Lo spogliatoio”. C’è un dettaglio che quando lo noti cambia completamente il senso che si attribuisce alla fotografia. Si tratta di un calzino. Io All’inizio non avevo notato la sua presenza e solo quando l’autore della fotografia me l’ha detto mi sono reso conto che c’era un indumento appoggiato su un vaso: apparteneva ad un signore senzatetto che si era cambiato lì perché bagnato per via della pioggia.  

Hai imparato qualcosa di nuovo da questo progetto?

Ho imparato ad ascoltare. Sembra sempre scontato, però non lo è affatto. Questo lavoro è stato per me un assaggio di quello che sarà la mia vita, il mio lavoro. Stringere legami e parlare con ragazzi che vivono in strada, che hanno perso tutto, che sono senza genitori o che hanno rischiato di annegare, mi ha dato la motivazione per fare meglio il mio lavoro. Questo progetto mi ha ricordato che non bisogna mai giudicare, che dobbiamo metterci in ascolto, dobbiamo esserci.

Che cos’è per te la Memoria?
Per me è un riferimento su cui crescere. Può essere una memoria positiva o negativa, ma rimane un punto dal quale partire per costruire qualcosa di migliore. Credo che questo progetto rappresenti per i partecipanti una parte bella della loro memoria: hanno potuto riflettere sui loro ricordi passati per produrre delle nuove memorie che rappresentano un passo avanti, un’evoluzione.  

Che cos’è per te l’Anima?

È difficile per me dare una definizione di Anima. Sicuramente per me ha un riferimento religioso. L’Anima siamo noi. Queste foto hanno Anima perché stimolano e quindi animano qualcun altro. La fotografia è il riflesso della nostra Anima e dei nostri occhi.